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La vita di Buddha

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view post Posted on 23/2/2010, 13:31     +1   -1
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Imperatrice della bambagia!

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Di Antonio Cioppa

È difficile ricostruire storicamente la vita del fondatore del Buddhismo,
giacché la sua biografia e la stessa cronologia affondano in tradizioni
chiaramente leggendarie. I documenti posseduti sono posteriori anche di
parecchi secoli agli eventi storici narrati e presentano tali incrostazioni
di elementi mitologici che impresa ardua è il tentativo di riconoscervi, tra
storia e leggenda, la vicenda terrena del Buddha.

Nel recente passato, fra gli studiosi occidentali, non è mancato chi ha
negato del tutto la storicità del Siddharta Gautama; ma oggi l'esistenza di
un Buddha storico non viene più messa in dubbio. In quanto alla sua
biografia, se ne può tracciare una, purché ci si accontenti di una
narrazione sobria ed essenziale, basata sulle concordanze dei testi più
antichi, quali il Canone Pali, le Cronache di Ceylon e le opere in
sanscrito.

Siddharta Gautama nacque intorno all'anno 560 a.c. da una famiglia
principesca della tribù ariana dei Sakya. (Anche il Buddha, come Mahavira,
il fondatore del Giainismo, e come i rappresentanti delle scuole
filosofiche, apparteneva non alla casta dei brahmani ma a quella dei
guerrieri). Dal nome del suo clan, Gautama fu più tardi chiamato Sakyamuni,
ovvero « il saggio dei Sakya». Vivendo nel palazzo di suo padre, ebbe
un'educazione adeguata al suo rango. Diventato adulto sposò una nobile
fanciulla dalla quale ebbe un figlio.

Fino all'età di 29 anni la sua vita fu quella comune ai giovani
aristocratici del tempo. Ma, giunto alle soglie della maturità, il principe
Siddhàrta fu profondamente turbato dalla vista delle miserie umane e fu
totalmente assorbito dal problema del dolore. La leggenda narra che,
malgrado le precauzioni del padre, il quale voleva che a suo figlio fossero
evitate le impressioni deprimenti, il destino o la volontà degli dèi fece sì
che, in breve tempo, gli si parassero davanti dapprima un vecchio decrepito,
quindi un malato, finalmente un morto e un asceta consumato dalle astinenze.
Nei quattro personaggi della leggenda vediamo simboleggianti i mali maggiori
dell'umanità: la decrepitezza, la malattia, la morte, la sofferenza (anche
quella volontaria).

Allora il temperamento religioso del principe si manifestò in pieno: egli
abbandonò la famiglia, per adottare la vita dell'anacoreta errante, alla
scoperta d'una via di liberazione. Dapprima si fece discepolo di due
brahmani asceti, i quali lo istruirono nella loro dottrina e nelle loro
discipline; poi si ritirò con cinque compagni in una foresta e iniziò una
lunga serie di digiuni severi, di esercizi di meditazione e di
moitificazioni tremende. Ma né l'insegnamento delle Upanishad né le
mortificazioni ascetiche lo soddisfecero. Gli parve che, a curare i mali
dell'uomo, non valessero né le interminabili disquisizioni dei filosofi né
le crudeli macerazioni ascetiche, valide, queste, tutt'al più a ingenerare,
assieme alla debolezza del corpo, anche la stanchezza dello spirito.

Decise allora di abbandonare i compagni, per tentare tutto solo un'altra
strada, quella della contemplazione e della meditazione silenziosa. La
leggenda narra che, durante questa nuova esperienza, Gautama fu più volte
assalito da Mara, lo spirito del male, che invano cercò di farlo recedere
dalla sua decisione. Questo particolare leggendario sottolinea che il
travaglio interiore di Gautama non fu privo di tentennamenti e di prove:
solo dopo una strenua lotta spirituale egli riuscì ad abbandonare le vecchie
credenze e a cercare metodi nuovi. Finalmente, all'età di circa 35 anni,
Gautama raggiunse il suo «Risveglio», l'illuminazione personale, la Bodhi, e
divenne cos1 il Buddha. l'Illuminato, il Ridesto.

Nella città di Benares tenne il suo primo sermone sulle «quattro nobili
verità» che aveva intuito nella Illuminazione. Il sermone gli attirò i primi
cinque discepoli, che costituirono il nucleo iniziale della Comunità. Da
quel momento il Buddha non si concesse riposo: per 45 anni percorse in lungo
e in largo tutta l'India, annunziando il «suo» messaggio di salvezza con la
parola e con l'esempio. Morì all’età di 80 anni, lasciando una Comunità già
largamente sviluppata.

I testi

Notizie della vita e della predicazione del Buddha ci sono fornite da un
complesso di testi, il cui numero s'è accresciuto via via nel corso dei
secoli fino a formare una vasta biblioteca. Le « scritture» buddhiste si
dividono in tre gruppi: 1) i «Discorsi» (Sutra), in cui si ritiene siano
conservate le parole autentiche del Buddha; 2) gli scritti sulla vita
monastica (Vinaya); 3) i trattati dogmatici o di «Dottrina Astratta»
(Abhidhamma). I testi più importanti sono i Sutra. Ciascuno di essi contiene
un sermone dell'Illuminato, sia che questi l'abbia realmente tenuto, sia che
lo scrittore l'abbia udito in visione, mentre era in uno stato di
raccoglimento in se stesso.
Data la molteplicità delle lingue parlate in India, gli scritti buddhisti
sono redatti in lingue differenti. La loro diffusione fuori dell'India ebbe
come conseguenza un enorme lavoro di traduzione. Su tutte emerge, per la sua
mole, la raccolta cinese.

Tutti insieme, questi scritti costituiscono l'immenso canone buddhista, ma
in senso diverso da quello che rappresentano, per esempio il Corano e la
Bibbia. Infatti il Buddhismo non ha mai considerato «chiuso», nel tempo e
nel contenuto, il suo canone. Questa «Scrittura» è una grande raccolta,
dalla quale le singole correnti e i singoli gruppi scelgono come «canonici»
i libri per essi più importanti, mentre considerano solo subordinatamente
gli altri, quando addirittura non li rifiutano.

La dottrina

La dottrina annunziata originariamente da Siddharta Gautama può essere oggi
ricostruita solo in modo ipotetico, poiché non abbiamo alcun documento che
si riferisca direttamente e immediatamente alla sua predicazione. Tuttavia
sembra certo che il suo insegnamento essenziale sia espresso nel discorso di
Benares, nel quale il Buddha annunziò le «quattro nobili verità», fondamento
di tutto il Buddhismo. In quel discorso Gautama, prescindendo da ogni
questione metafisica, indicò in maniera pratica una terapia spirituale, una
sicura via di salvezza agli uomini soggetti al samsara e immersi in un mondo
misero, perituro e fallace.

Elencate appunto in termini terapeutici, le quattro nobili verità possono
essere così enunciate:

1) Diagnosi: qualsiasi esistenza è dolore. Nascita, vecchiaia, malattia,
morte, separazione dagli esseri amati, possesso e privazione, desideri
insoddisfatti, tristezza, pena, angustia, angoscia sono dolore.
«Dolore è la nascita, dolore è la malattia, dolore è la vecchiaia, dolore è
la morte, dolore è l'unione con ciò che si ama, dolore è non ottenere ciò
che si desidera» (Mahavagga, I, 1-2).

2) Eziologia: origine del dolore è il desiderio; sia il desiderio di
divenire sia quello di estinguersi. Esso costituisce l'essenza del karman e
causa la rinascita.
«Dal desiderio nasce il dolore; dal desiderio nasce il timore; chi è libero
da desiderio non conosce dolore: difatti, di che cosa dovrebbe tèmere?
-Dalla sete di vivere nasce il dolore, dalla sete nasce il timore; chi è
libero da sete non conosce dolore: difatti, di che cosa dovrebbe temere? »
(Dhammapada, 215-216).

3) Guarigione: lo spegnimento del dolore consiste nello spegnimento del
desiderio.
«Chi ha raggiunto la consumazione (dell'esistenza), che non trema più, la
cui sete è scomparsa, che è senza macchia, che ha troncato i pungoli
dell'esistenza, (di costui) quello attuale è l'ultimo corpo (di cui si
riveste).
Colui la cui sete è scomparsa, che è privo di attaccamento, che conosce la
composizione delle lettere e la loro collocazione (= che intende
l'insegnamento e)o interpreta rettamente), costui, che ha ricevuto il suo
ultimo corpo, è detto Gran Saggio e Grande Uomo» (Dhammapada, 351-352).

4) Terapia: la via allo spegnimento del desiderio è il nobile ottuplice
sentiero.
«Colui che, invece, cerca rifugio nel Buddha, nella Legge e nella Comunità,
scorge con retta cognizione le quattro nobili verità: il dolore, l'origine
del dolore, la cessazione del dolore e il nobile ottuplice sentiero che
conduce all'acquietamento del dolore» (Dhammapada, 190-191).

Constatata l'universalità del dolore, Gautama Buddha trova nel desiderio
l'origine e la causa di ogni sofferenza: desiderio o cupidigia di piaceri
sensuali, sete d'esistenza, sete di perennità, sete di annientamento. Questa
sete viene dall'ignoranza (avidya), cioè dalla falsa credenza in un «io»
concepito come individuale. Per Buddha, quella che ordinariamente noi
occidentali chiamiamo anima non è un'entità spirituale, un essere a sé, ma è
solo un composto variabile e precario di aggregati indecomponibili. Egli
respinge l'idea brahmanica di un « sé » concepito come entità spirituale che
trasmigra di corpo in corpo, in quanto ciascun essere vivente non è altro
che un insieme di fenomeni psico-fisici in perpetuo divenire.

Questi aggregati, questi elementi semplici (naturali, spirituali e morali)
che costituiscono l'individuo, non si annullano con la morte: continuano ad
agire di là dalla decomposizione del corpo fisico e pongono le basi della
vita di nuovi individui. Pertanto la concezione buddhistica della rinascita
non è da confondersi con quella induistica della trasmigrazione delle anime.
Nel samsara buddhistico non c'è nulla che trasmigra, che si trasferisce di
corpo in corpo. Esistono delle onde di vita, tanti desideri non estinti, che
costituiscono altrettante forze aggreganti degli elementi psico-fisici e che
si manifestano qui come uomo, là come animale, altrove come dèmone. Queste
onde, queste correnti di elementi semplici, che continuamente s'aggregano e
si disgregano, obbediscono alla legge della causalità morale, al karman.

Dunque, l’io non esiste:

«Come là dove le parti di un carro si trovano riunite, si suole usare la
parola "carro", che in sé non esiste, così là dove i fenomeni psico-fisici
sono riuniti, si suole usare la parola "io", ma in effetti l'io non esiste
come entità a sé» (Samyutta-nikâya I, 135).
Se l'io non esiste, niente posso dire che sia «mio». È la falsa credenza
nell'io e nel mio, è l'ignoranza che ci spinge ad attaccarci a ciò che è
caduco e non ci appartiene, creando così in noi la sete di vivere,
generatrice del dolore. Per guarire il male, per ottenere la cessazione
della sofferenza, non c'è che un rimedio unico e radicale: la distruzione
dell'ignoranza e l' estinzione del desiderio, in una parola, il nirvana.

Il termine sanscrito «nirvana» significa «cessazione», «spegnimento»; indica
quindi il cessare di ogni impulso vitale, di ogni passione, di ogni
mutazione.

« L'annullamento della cupidigia, l'annullamento dell'odio, l'annullamento
dell'errore, ecco ciò che è chiamato nirvana o santità» (Samyutta-nikâya IV,
251).
Nirvana è, dunque, uno stato di pace perfetta. Esso non è identico
all'annichilarsi; bensì è una conquista positiva, quarto grado della santità
e, come tale, raggiungibile già in questa vita. Ma dopo la morte, dopo la
dissoluzione del corpo, il nirvana non è forse la fine di tutto? Non è forse
la dissoluzione definitiva e totale? Sembra che non vi sia altra
possibilità: l' anima individuale non esiste, il karman non esiste più. Il
Buddha ha rifiutato qualsiasi spiegazione al riguardo. Il suo procedimento è
pragmatico. Pertanto egli rifiuta come non necessarie tutte le spiegazioni
che non mirano direttamente allo scopo di liberare dal dolore.

«Alle domande: "Il mondo è eterno o non eterno? Il mondo è infinito o non
finito? L' anima e il corpo sono uno o non sono uno? Il santo dopo la morte
esiste in un senso e non esiste in un altro senso? Oppure né esiste né non
esiste? ", il Buddha rispose col silenzio» (Dîgha-nikâya I, 187). Cercare di
rispondere a tali interrogativi sarebbe addirittura nocivo, giacché si
ritarderebbe il conseguimento del fine ultimo, che è il nirvana.

« Un uomo ferito da una freccia cerca di estrarsela, senza mai domandarsi di
quale materia sia fatta» (Majjhima-nikâya I, 426).
Per il Buddha, il nirvana e una realtà che non può essere oggetto di
speculazione o di intuizione intellettuale, è un'esperienza spirituale
perfettamente positiva, quantunque indefinibile e indescrivibile, che si può
provare fin da quaggiù in terra, ma che per il vivente non si può
caratterizzare che in opposizione, e per ciò stesso in relazione, a ciò che
del nirvana è negazione: l'esistènza:

L'ottuplice sentiero
La via salvifica che conduce al nirvana è riassunta nell'ottuplice sentiero
e costituisce, per la sua moderazione, un. sorprendente contrasto coi metodi
di salvezza raccomandati dalle altre correnti religiose contemporanèe. Essa
evita tutti gli estremi, sia la tendenza all'edonismo sia l'ascesi
eccessivamente severa. Questa moderazione ha meritato al Buddhismo la
denominazione di Via Media.
La via di mezzo, proposta dal Buddha, comprende otto corsie o otto fattori
necessari al conseguimento della liberazione dal samsâra: due sono di ordine
intellettuale (retta comprensione, retta intenzione); tre riguardano il
comportamento morale (retta parola, retta azione, retto contegno); tre
infine dipendono dalla disciplina mentale (retto sforzo, retto ricordo,
retta concentrazione).

I primi due fattori significano che non può esserci retta intenzione senza
un corretto atteggiamento spirituale: non si può intraprendere il cammino
che conduce alla liberazione, se prima non si penetrano la dottrina delle
quattro nobili verità e quella dei caratteri dell'essere individuale, se
cioè non si vede chiaramente che l'individualità è legata alla sofferenza,
che la distruzione della sete d'esistenza è necessaria alla cessazione della
sofferenza e che non c'è affatto un « io » permanente. Questa retta
comprensione delle cose è in grado di determinare una retta intenzione, cioè
quella di estinguere la sete d'esistenza individuale.

La retta intenzione si esprime nella condotta morale, vale a dire in una
conformità dell'azione esteriore con la risoluzione interiore. Retta parola
vuol dire veracità, dolcezza e decenza nel parlare; retta azione significa
rispettare i cinque precetti obbligatori: non uccidere alcun essere vivente,
non rubare, non commettere atti contrari alla castità, non dire parole
menzognere, astenersi dalle bevande alcooliche. Retto contegno vuol dire
operare sempre con onestà (cf. l'honestas dei latini) e purezza d'intenti.

I tre ultimi fattori, quelli dipendenti dalla disciplina mentale, richiamano
l'attenzione sull'importanza della vita interiore. Il retto sforzo è il
controllo e la padronanza della vita spirituale; il retto ricordo è uno
stato di continua vigilanza e lucidità d'intenti, che proviene ogni
rilassamento dello sforzo; la retta concentrazione è uno stato di profonda
calma interiore (samâdhi), raggiungibile attraverso un lungo esercizio di
meditazione, che consiste nello staccare progressivamente lo spirito da ogni
esperienza sensibile ed esterna. È enstasi, è uno stato di sopracoscienza
che permette di raggiungere il nirvana fin da questa vita, anche se permane
ancora una certa esperienza sensibile.

Questo stato di coscienza superiore continuerà anche dopo la morte? Pare che
il Buddha lasciasse supporre di si.
 
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